I rapporti di lavoro nel trasferimento d’azienda

Recenti sentenze della Cassazione forniscono l’occasione per un aggiornato riesame delle problematiche inerenti al tema del trasferimento d’azienda (o di un suo proprio ramo) nonché delle salvaguardie legislativamente approntate per la tutela dei lavoratori.
Va premesso che la disciplina del trasferimento d’azienda non rappresenta solo una tecnica di riorganizzazione dell’attività d’impresa finalizzata a regolamentare le trasformazioni della titolarità dell’impresa, ma è al tempo stesso una linea di frontiera ed un punto di equilibrio tra le insostituibili e contrapposte esigenze di tutela dei lavoratori e le necessità di trasformazione per l’attività produttiva.
In quest’ ottica, sotto la spinta dell’ esperienza comunitaria, normativa e giurisprudenziale, il mutamento della titolarità dell’azienda (o di parte di essa) è stato sempre più letto dal legislatore come un processo speciale, composito, concertativo, funzionale a rendere compatibili le diverse esigenze coinvolte: non solo quelle dell’azienda, ma anche quelle dei lavoratori coinvolti.
L’inderogabilità della tutela, l’identificazione dei diritti dei lavoratori ceduti, l’impossibilità di ricorrere al trasferimento al fine di occultare ipotesi di licenziamento, la tensione verso la tutela dei lavoratori sotto ogni profilo coinvolti dall’eventuale trasferimento, rappresentano peraltro l’estrinsecazione di un unico concetto di fondo: il rapporto di lavoro, ed il prestatore stesso, non possono essere degradati a semplice fattore di produzione unilateralmente alienabile dal datore di lavoro.
Nel merito va detto che la disciplina legale del trasferimento d’azienda – antecedentemente al cd. “Patto per l’Italia” sottoscritto dalle sole Cisl e Uil con il governo di centro-destra il 5 luglio 2002, il cui all. n. 3 venne poi trasfuso nell’ordinamento per effetto dell’art. 32 del d.lgs. n. 276/2003 -  risiedeva esclusivamente nel vecchio art. 2112 c.c., prima delle innovazioni  apportate al suo testo dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990 n. 428 (c.d. legge comunitaria per il 1990), seguita dal d. lgs. 2 febbraio 2001 n. 18 (“Attuazione della direttiva 98/50/CE relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti”).
Quest’ultima normativa introdusse la seguente formulazione: «Art. 2112 (Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda). – In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.
Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.
Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’articolo 2119, primo comma.
Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento e’ attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto d’azienda.
Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità».
Le innovazioni introdotte nel 2001 apparvero subito del tutto incisive: a) attenendo alla nuova nozione di trasferimento d’azienda, nel quale rientrano non solo i mutamenti di titolarità dell’intera azienda ma di singoli rami, preesistenti ed autonomi anteriormente al trasferimento; b) implicando l’affermazione secondo cui il trasferimento non costituisce motivo di licenziamento; c) contemplando la (invero virtuale) possibilità per il lavoratore  – le cui condizioni di lavoro subiscano per effetto del trasferimento una sostanziale modifica (es. logistica, organizzativa, contrattuale, ecc.) – di dimettersi entro 3 mesi per giusta causa (con percezione cioè dell’indennità sostitutiva del preavviso); d) affermando il principio secondo il quale per i lavoratori che passano alle dipendenze dell’impresa incorporante si mantiene il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l’azienda cedente solamente nel caso in cui l’impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo. In caso contrario, invece, la contrattazione collettiva dell’impresa cedente è sostituita immediatamente e in tutto da quella applicata nell’impresa cessionaria anche se più sfavorevole (cfr. Cass., sez. lav., 13 maggio 2011, n. 10614). In sostanza l’art. 2112 c.c. comporta l’inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con l’applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro quale risultante dai contratti collettivi (di vario livello: nazionale, territoriale, aziendale, ecc.) in atto presso l’acquirente al posto di quelli – di pari livello – applicati dal cedente.
La parità del livello contrattuale, contemplata per l’immediata sostituzione dei contratti applicati dal cedente con quelli in atto presso il cessionario, non implica affatto la garanzia per gli esternalizzati ex art. 2112 c.c. di mantenimento di eguali condizioni rispetto a quelle fruite in precedenza, potendo accadere che vi sia un peggioramento determinato giustappunto dalla sostituzione (Cass. 4 aprile 1997, n. 2955). Tale peggioramento non può però pregiudicare i diritti acquisiti dal lavoratore nel corso della precedente contrattazione (quelli, cioè, già entrati a far parte del suo patrimonio, non già le mere aspettative future).
Occorre comunque tener presente che nella prassi tale sostituzione automatica è solitamente accompagnata da intese o accordi ad hoc,  c.d. “di armonizzazione” – realizzati solitamente  per intervento delle OO.SS. – che hanno la finalità di garantire una equilibrata modulazione tra i contratti di lavoro applicati rispettivamente dal cedente e dal cessionario.
La cessione di ramo di azienda risulta assoggettata al regime previsto dall’art. 2112 c.c., con la conseguenza che il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore già suo dipendente – il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario – per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d’azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall’articolo 2112, comma 2. Infine, quest’ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l’unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda (cfr. Cass., sez. lav., 22 settembre 2011, n. 19291).

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